SCORRERE, una rivoluzione origliata (2012)

Il Teatro di Roma ha chiesto a sei drammaturghi italiani di scrivere qualcosa sulla Primavera Araba. Io ho scritto questo pudico poemetto.

Il mio patrigno e la sua ragazzina, li dovrei prendere a schiaffi tutti i giorni, ma poi loro mi ammazzano, chiamano la polizia...Mio padre è morto presto, troppo presto, è diventato per tutti un santino, chi muore giovane poi non muore mai...Mia madre muta, crocifissa alla sua panca, il sole gira nella chiesa vuota, lei sola al centro come un pianeta fermo, le calze nere lise alle ginocchia, le labbra semiaperte, il suo respiro...Il capo che fa il furbo, che conta i soldi quattro volte al giorno, che sembra un mutilato tanto stringe, col pugno destro in tasca il suo malloppo, non usa neanche più la vecchia tecnica, non lecca il culo, non promette: niente, fa tutto come io fossi il suo schiavo, lo schiavo idiota che non muore mai...

Più che nascondermi da qualche parte tra le erbacce, aprirmi un varco tra i sambuchi e stare lì, col mio quaderno e il tabacco, più di così non ho mai fatto...
La carta grigia del quaderno grida, tanto ci scrivo forte, si lamenta, la sento piangere come parlassi a lei, e lei mi rispondesse...Muoiono presto le matite cinesi, si accorciano in un giorno, alla sera sono già poltiglia di grafite, io me la spalmo sulla faccia, ci disegno: occhiaie, lentiggini mostruose, strani tumori che nessuno nota, tanto il sudore li mescola alla terra...Quello che scrivo lo scrivo per me, per chi sennò? Sopra ogni cosa: non fare anche di questo un commercio, di tutto, non di questo, l'ho promesso a papà, l'ho giurato...E se non un commercio che cosa? Una preghiera, una prova, un esercizio, per essere pronto quando sarà ora, quando tutto arriverà e sarà improvviso, e si dovrà capire al volo e fare, la cosa giusta, la cosa meno ingiusta...

Potevi fare l'avvocato, il politico dice la nonna impastando le polpette, nella penombra delle sue due stanze, la radio sempre accesa, ma sei come tuo nonno, chi ti piega?...
Le prime volte che me lo diceva, io vedevo completi grigi di lino, camminare da soli, senza carne, prendere vita in strada, stringere mani fantasma, salutare, la vita immaginaria di un ritratto sul muro, avvocato, politico, parole piene di luce, inconsistenti, figure di manichini sul corso, con un gelato in mano, una donna a braccetto...
I vecchi che ti amano, quei pochi, vorrebbero per te qualcosa d'altro, che questa vita incerta, per loro felicità vuol dire pace, ti pensano a riposo, è un paradiso di corpi appoggiati, che non patiscono, dinoccolati, profumati: l'immagine di quel che loro non son stati...

L'odore d'aglio e macinato si spande, arriva fino al letto di là, dove io aspetto guardando il soffitto, le parole della radio sono fredde, da mesi non parlano d'altro, che di denaro, di come fare a risparmiarlo, a spenderlo, chi perde, chi guadagna, chi deve avere pazienza, le classifiche, parole inglesi che sembrano insulti, è una lingua squadrata, cose che ho già sentito mille volte...Eppure ad ascoltare per davvero, quelle parole, quelle poesie meccaniche, ad ascoltarle per bene, ancora e ancora, più ascolti e meno ci capisci, più loro parlano e più ti passa fuori, ti attraversa...Guardo di là in cucina, la nonna olia la teglia, depone le polpette, infila tutto dentro il forno, chiude, si pulisce le mani sulla pancia...

Ognuno si difende, sente, di avere attorno il proprio regno: una casa, una serie di oggetti,
i giovani la promessa di una fama, di un posto, di un piedistallo nella piazza grande...Ci hanno cresciuti così, erano tutti disgustati dagli altri, anche la mamma, anche il suo amico, tutti, stanchi di starsi vicini, volevano di più, sembrava adesso che da soli sì, da soli sì vedrai che ci riusciamo, a diventare qualche cosa, qualcuno, quello che c'era non bastava più, hanno comprato case, titoli, partivano in vacanza, si sono fatti ricchi, finalmente...

Poi è venuto il grigiore, all'improvviso, il dopoguerra senza guerra, la pazienza, i vecchi ci si sentono a casa, è un assaggio di morte che consola, chi si è arricchito spende però è triste, sparita l'aria di festa, anche corrompere non dà più allegria...
La nostra piccola città si è fatta grigia, ancora più grigia del solito, si è piegata alla forza del clima, al deserto d'agosto, agli scrosci, alle grida d'autunno...A guardarla dalla curva, verso il mare, sopra l'unica strada ancora aperta, la vecchia strada in cresta che non frana, questo paese assomiglia a un formicaio, a un vulcano smussato, molle, spento, un impasto di fango e cespugli...

Eppure c'è qualche cosa di nuovo: negli orti abbandonati per l'arsura, adesso crescono certi nuovi fiori, da semi sconosciuti, arrivati nel vento, crescono tra le crepe della terra, in cespi radi, in gruppi di ciuffi, come tante piccole oasi in un deserto, sembrano crochi di un colore mai visto, un verde fluorescente, del nettare, vanno già ghiotti i bombi, il gambo è duro, hanno radici piccole, profonde, prendono acqua là sotto, chissà dove, forse anche dal vento salmastro...
E poi ci sono le voci, certe voci, che non conoscevo, si sentono nel silenzio del tramonto, ci sono meno motori, l'aria è tersa, e quelle voci parlano, tutte le sere di festa degli altri, mentre gli altri cucinano, bevono, dicono cose oziose, dentro le case già piene di fumo, nei caffè, queste altre voci, in coppia, in trio, discutono, e come i crochi nuovi, prendono forza dove? non lo so...

Io ascolto tutto dal mio giardino selvatico, dalla radura di sambuchi, dalla mia piazza tra le erbacce alte, sento spezzoni di discorsi, risate...Nessuno immagina che io sia là dietro, oltre la staccionata del restauro, la chiesa vecchia cade a pezzi da sempre, da quando sono nato, nessuno si ricorda quand'è stato, il crollo grande, l'ultimo, hanno fatto la chiesa nuova in pochi mesi, quella capanna di cemento e vetro, la casa della mamma, sepolta viva nella cera, incancherita dall'incenso, immobile...Nessuno sa che sto nascosto là, all'inizio pensavo anch'io di cambiar posto, non riuscivo più a scrivere, a pensare, ma poi ho cominciato ad ascoltare, a trascrivere pezzetti di discorsi...

Senza la fame non succede niente, e qua la fame non c'è, non ancora...
Guarda che in piazza c'erano i figli dei ricchi...
Ma chi ha sfondato, chi è caduto, sono sempre gli stessi: i poveri, le reclute...
Non è la fame: è il disgusto, la cappa che da vent'anni hai sulla testa!
Sì ma quand'è che un popolo è un popolo? Si comporta da popolo? Quando tutti hanno bisogno degli altri, per mangiare, per vivere, allora sì che le porte stanno aperte, spariscono i nemici: bum! Da ieri a oggi nessuno è cambiato eppure cambia tutto, come mai?
C'era davanti a tutti un obiettivo, che a un certo punto è sembrato lo stesso, erano esausti: ti torturano, ti umiliano, non conti un cazzo, non puoi fare un cazzo...Quando per tanti anni resti indietro, e la tua vita si restringe, e non ti senti più al centro di niente, ti guardi attorno e vedi tutto un paese ristretto, piccolo, meschino, ecco: sei pronto, e come te anche gli altri...
Va bene, può essere che la cosa prenda forma, si cacci giù il tiranno e poi?
A bocce ferme tornano fuori tutti, quelli che hanno osservato, hanno applaudito, come applaudono ogni cosa, e siamo tutti lì di nuovo...Elezioni! Va bene, ma non è una maggioranza che ha sfondato, che si è immolata per qualcosa e ha vinto, erano i pazzi, i diversi, gli illusi, per molti versi i migliori, i più candidi e tutto questo è già sparito! A cosa serve, a cosa è servito?
Si torna indietro un po', è normale, anche per noi, non è stato così? E' misterioso il modo in cui quel sangue, quel dolore, influiranno sulle cose, cose di nuovo banali: regole, regoline...Eppure adesso qualcosa è andato in pezzi, perché hanno visto a cosa serve tutto: lo stato, i poliziotti...
Davvero? E a cosa servono?
A noi...
Ah sì?
Han da servire noi, devono farlo, se non lo fanno, allora tutti in piazza, fosse così anche qua! E' stato un corso accelerato di politica, hanno visto la macchina scoperta, le ruote, gli ingranaggi per un attimo, lasciati soli, abbandonati...
Ma sono pochi quelli che l'hanno visto, i più hanno atteso, nemmeno hanno capito, sanno che qualche cosa cambierà, sperano in meglio, ma se quei pochi non entrano in gioco, se adesso non contano più, se sono stati, soltanto il carburante dell'incendio, che ha distrutto il passato, ma poi chi costruirà saranno altri, non cambierà mai nulla.
C'erano facce anche molto diverse.
E tutte dovrebbero restare, fondare il nuovo assieme, esserne parte, invece adesso vincerà il più forte, sarà eletto, avrà il suo esercito, la legge, comanderà non più il tiranno, lo farà un presidente...Ma se di nuovo conterà l'appartenenza: a un clan, all'altro, a una parola d'ordine, allora tutto è stato inutile, di nuovo...

Vedi, è come se tutto, ovunque, fosse fermo, incardinato, cambiano facce, nomi eppure sempre, è quello che sta nell'ombra che decide...
Ma qui volevano democrazia, è la richiesta di un po' di libertà, qualcosa anche di molto pratico: un po' di spazio, un po' di dignità, è l'abc di una cittadinanza, è un esordio...
Però la mobilitazione è stata fatta, coi mezzi più contemporanei, si sono trovate in piazza solitudini, solitudini a migliaia, come potrebbe succedere qua...A me spaventa una rivolta di singoli, di milioni di singoli...
E perché? Se per la prima volta tra diversi, tra chi ci avevano detto era nemico, ci si parla, ci si tocca, questo ha valore, rompe muri...
Per un po' sì ma poi? Che cos'è una rivolta che nasce per un passaparola, per un annuncio pubblico, qualcosa che si autoalimenta? Capisci quanto lo spazio, dopo, si riduce? Quello spazio che sembrava allargarsi, che per un attimo ha accolto tutti dentro, poi si è richiuso, è scomparso: perché non esisteva. Invece i vecchi, i potenti di sempre, l'esercito, i banchieri, le tribù, chi tiene i fili al buio, chi usa la forza ogni mattina, il calcolo, hanno uno spazio che è fisso, fermo e non c'è nulla, che possa prendere il suo posto, è il posto stesso la questione...
Ma chi ci arriva in quella stanza o si ritrae per la paura o si corrompe, o se rimane candido un po' troppo, lo tolgono di mezzo, perché è qui che abita il male, è qui che l'uomo non è uomo, serve l'ombra...Allora anche i milioni nelle piazze, avranno forse ottenuto qualche cosa, le cose andranno meglio per un po', ma se non entri nella stanza buia, se non scalfisci l'idolo, l'abbatti, di nuovo ognuno sarà contro ognuno, la libertà diventerà agonismo, e si dovrà sperare nei devoti, a qualche idea comunitaria, a qualche dio, che predichi lo stare insieme disarmato, senza pretendere il sangue dei più deboli, e anche questo è difficile...E' che dovremmo tutti cominciare, ad imparare i limiti, dentro le cose, limiti scritti nella terra, nei nervi...degli animali, finché non c'è questa conciliazione, finché non deponiamo le armi antiche, tutto è intercambiabile...
Tu vuoi portare la natura dove lei non vuole, vuoi uscire dal caos, anche tu come i potenti che contesti, tu hai paura degli uomini, vuoi ordine. Qual'è il problema a immaginare un mondo di individui, di famiglie, di clan, ognuno intento in pace al proprio orto? E non è questo a cui gli umani ambiscono, semplicemente, e a niente più di questo?
Ma capisci che a fronte di questo, per permettere questo, ci vorrà sempre un capo, un padrone, un esercito, che vegli sopra i giochi di quel popolo?
E tu lascia che vegli! A me sembra una bella immagine: un custode, qualcuno che li lascia vivere, giocare, che non li vuole cambiare né opprimere, e solo veglia perché sia possibile, continuare così, vivere in pace...
La pace idiota che abbiamo noi qua...
La pace è pace e basta.

Io sto nascosto là e li ascolto, li conosco, tornano a casa il venerdì dalla città, studiano a nord, la domenica ripartono, riempiono la stazione di parenti...
Quello che dicono io non lo capisco, conosco il significato dei vocaboli, ma non quel modo di usarli...Allora sono andato in biblioteca, non qui al paese, a quella di città, prendo il trenino del sabato mattina, non vado a leggere, no: attacco discorso, con quelli che mi sembrano i più svegli, ci mettiamo a parlare anche noi...Prima scoppiano a ridere, dicono: e tu da dove salti fuori? Però poi piano tirano fuori tutto, smettono di studiare, andiamo in giro per la grande città, ci intoniamo al frastuono, come fossimo la sua musica interna, il meccanismo, certi hanno soldi da spendere, bevono, altri stanno al mio gioco, rispondono, alle domande che non mi stanco di fare...E prima parlano in astratto, lungamente, poi piano cambiano, fanno esempi concreti, si agitano sulle sedie, ci appartiamo, sussurrano segreti...E io vedo giardini, alberi alti, entro nei loro appartamenti, vuoti, ordinati, enormi, prendono soldi da sotto un soprammobile, si danno appuntamenti per telefono, e percorriamo chilometri e chilometri, con ogni mezzo, e io li incalzo, e loro sono sempre più tranquilli, e io ribatto, e si apre uno squarcio, l'abbraccio fa da risposta ormai più spesso, uno sguardo, l'osservazione dei passanti, qualche volta, qualcuno per leggermi una frase, secondo lui perfetta, una risposta, a una domanda delle mie, per trovare quel libro, su cui sta scritta, subito, mi prende, e corriamo controcorrente tra la folla, fino a una libreria, lui va sicuro in fondo, lo cerca, lo trova, lo apre, legge una frase che io stento a capire, me la spiega, si sorprende, che io riesca a parlare così bene, la nostra lingua, e poi non abbia quel suo vocabolario, ride, e mi chiama il poeta...
Non me ne importa nulla, non adesso, di quello che scrivo, delle matite, della carta, della mia piccola radura trai sambuchi, sono qua...E adesso io capisco, che abbiamo tutti, anch'io, bisogno di questo: di scorrere, soprattutto di questo, sì: di scorrere...

Alessandro Berti
aprile 2012

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